mercoledì 16 luglio 2008

Lettera aperta


Stamattina la mia amica e collega Francysing mi ha girato un articolo...

Dal blog di Meltemi ho letto con attenzione la lettera aperta di Massimo Canevacci e ora la posto anche qui.

Mi ha lasciato un profondo senso di frustrazione, sarà che Massimo Canevacci è un Professore che quando sei a lezione non ti tratta da studente, ti fa sentire parte di qualcosa, si da completamente con le sue emozioni, regalando a chi lo ascolta tutta la sua continua ricerca.

Antropologia Culturale è la materia che insegna(va), la riconosci subito dalla bacheca, entri in facoltà giri a sinistra e ti ritrovi una bacheca con mezza scarpa con il tacco rosso fuoco, incollata dentro, locandine e annunci di laboratori e performance, lezioni e prensentazioni di libri. Non si ferma mai, niente di cristallizzato. Tutto va avanti, una continua ricerca, un continuo studio.

Grazie ad Antropologia Culturale ho aperto la mente a tante cose che non conoscevo, ho imparato a guardare con la mente aperta, senza porre limiti di alcun genere, o almeno a mettere in discussione i miei limiti. Ho imparato a studiare, essenzialmente un metodo.

L'unico esame dove sono andata rilassata, perchè non c'è stato un libro che non ho amato, che non mi sia entrato dentro totalmente e che anche adesso riprendo spesso.

Oggi, leggo la lettera aperta del mio professore... e mi viene tristezza, una profonda tristezza... perchè tutto quello che pensavo, la disillusione sul mio percorso di studi, la svendita dei cervelli... e tutto quello che ne consegue, non riguarda solo noi che, voglio dire, siamo stati formati al rifiuto, alle porte in faccia... ma riguarda anche gente come Canevacci, che a lezione ti fa ascoltare la musica e che insieme a te chiude gli occhi per farla passare direttamente nell'anima, che si commuove... che si avvelena perchè pur scegliendo di essere lì a lezione la gente non ascolta. Inammissibile.

Ecco la lettera.


Massimo Canevacci
Lettera aperta per la Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università “La Sapienza” di Roma

Le nuove scelte didattiche della Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università “La Sapienza” mi impongono di rendere pubbliche alcune perplessità, poiché, a fronte di un’indubbia crisi dell’ordinamento triennale, si è deciso di ristrutturare l’ordine degli studi secondo una visione della comunicazione restaurativa e schiacciata sull’esistente.In tal modo, la scienza della comunicazione rischia di ridursi a una preparazione professionale di taglio giornalistico; le connessioni sperimentali e trans-disciplinari con quanto emerge nella comunicazione digitale (estesa tra design, architettura, pubblicità, performance, musiche, moda, arte ecc.) spesso risultano incomprese, “non controllate” o neutralizzate in “tecniche”; e vengono ignorate, di conseguenza, quelle ricerche che stanno tentando modificare paradigmi espositivi, composizioni espressive, narrazioni multisequenziali.Tale tendenziale rinchiudersi della comunicazione dentro un giornalismo asfittico e un’apologia dei media impoverisce la Facoltà, trasforma i docenti in funzionari dell’“industria culturale”, addestra gli studenti alla rinuncia all’innovazione e all’assenso disciplinato, chiude alle nuove professionalità che attraversano visioni, stili, linguaggi, è indifferente alle prospettive che nelle università estere da tempo vengono applicate in questo ambito (si veda il ruolo dell’antropologia culturale nei Media Studies in tante università estere – MIT, Humboldt Universität, Escola de Comunicação e Arte dell’Università di São Paulo con la quale ho stabilito un accordo di scambio tra docenti e studenti). Tutto questo rischia di configurare provincialismo disciplinare, endogamia mass-mediale, diffidenza dell’emergente, sottrazione delle potenzialità digitali.La materia che ho insegnato per più 20 anni – Antropologia Culturale, materia fondamentale per gli studenti di primo anno – è stata soppressa, mentre a Roma, in Italia e ovunque, sarebbe necessario moltiplicare le ricerche con questo orientamento, per contrastare le pericolosissime onde razziste, le chiusure localistiche, i decisionismi verticistici, le grettezze mediatiche.Si è preferito, invece, puntare su materie “classiche” (diritto e storia), eliminando la prima delle tre discipline fondamentali delle scienze sociali (antropologia, sociologia, psicologia). Il docente che la insegnava viene “esiliato” al terzo anno del corso di laurea di Cooperazione e Sviluppo, con una materia denominata Comunicazione Interculturale. Già nel titolo del corso si esprime la continuità di un dominio neo-coloniale dell’Occidente verso un mondo “altro”: che la “cooperazione” sia focalizzata a dare aiuti economici ai laureandi e ai rispettivi Paesi di residenza, piuttosto che all’“altro”, dovrebbe essere ormai evidente; e sulla critica al concetto di “sviluppo” sono stati scritti così tanti saggi prima e dopo il ‘68 che è noioso solo ricordarlo. Quindi si crea una materia come Comunicazione Interculturale, che fin dal nome rafforza chiusure identitarie e culturali, regressioni scientifiche e formative, che purtroppo appaiono in sintonia con quelle politiche da “lega romana” adeguate al clima imperante, in cui un cattolicesimo appiccicoso cerca di controllare governi e opposizioni, atenei, facoltà, docenti.I riferimenti cui la mia cattedra si è ispirata sono collocati, tra gli altri, nel filone antropologico inaugurato da Gregory Bateson: che, a partire dalle sue ricerche anticipatrici a Bali, hanno permesso di elaborare il “doppio vincolo”, concetto tra i più straordinari applicato sia alla comunicazione “normalmente” psico-patologica che ai mass media nascenti; fino alla sua collaborazione con Wiener per le primissime ricerche sulla cibernetica. Anziché dedicarsi a santi e madonne, processioni e proverbi – temi troppo spesso esclusivi nell’insegnamento di questa materia da noi – la ricerca antropologica di Bateson si inserisce nei flussi già all’epoca emergenti di comunicazione, tecnologia, alterità.Infine, questa lettera non rivendica nulla di personale (vado in pensione dal prossimo anno e lascio quindi questa Facoltà). Essa esprime un posizionamento politico-culturale che individua, nella crisi crescente e apparentemente irreversibile della Facoltà di Scienze della Comunicazione, un problema su cui indirizzare la riflessione critica nell’interesse di docenti, studenti, impiegati: di chiunque viva e respiri l’aria di un’università che cerchi di dare senso ai futuri possibili e non si limiti a replicare il peggio dei presenti mediatizzati.



La lettera è pubblicata qui sul sito della Facoltà di Scienze della Comunicazione di dell'Università La Sapienza di Roma.

1 commento:

Vale ha detto...

Non ci credo che abbiano tolto Antropologia Culturale al primo anno...O meglio...non riesco a crederci.
E' stato uno dei pochi corsi che ho seguito con completo e totale interesse...uno dei pochi che davvero "guardavano oltre" il pezzo di carta, che mi ha regalato mille spunti di riflessione, mille curiosità, mille frammenti di cultura da rivedere e rielaborare.
Togliere una materia del genere agli studenti è come sbattere loro una porta in faccia e chiuderla a chiave. Una porta sul mondo. Una porta sull'altro e su noi stessi.
Peccato.
Speravo che con la riforma le facoltà si svecchiassero un po' e invece fanno un nuovo passo indietro.
Che amarezza...

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